Stefano Siccoli

Siccoli

Stefano Siccoli, maggiore e leggendaria figura risorgimentale, amputato in Perù e per la menomazione escluso dai Mille, raggiunse lo stesso la Sicilia e a Napoli sfidò l’alterigia sabauda, a cavallo con la sua camicia rossa.

Siccoli Stefano di Luigi, nacque a Firenze nel 1834 (o più probabilmente nel 1830), figlio di un affermato avvocato.
Era studente e ancora ragazzo quando fuggì di casa per partecipare ai moti insurrezionali
di Forlì. Ripreso dalle guardie fu riportato a casa dai familiari.
Ripartì con il battaglione universitario ma non fu esposto al combattimento data la sua giovane età.
Tornato brevemente a casa, la sua indole inquieta lo porto a Livorno per partecipare alla difesa della città dalla restaurazione austriaca. Prese la strada dell’esilio e cercò poi di arruolarsi nell’esercito piemontese. Rifiutato per la sua giovane età si recò negli Stati Uniti deciso a cercare fortuna in California. Fini invece in Perù dove conobbe Garibaldi con cui fu imbarcato sulla Carmen nei viaggi tra Oriente e America. Militò poi, nel 1953, nell’esercito peruviano che combatteva contro il Cile per l’indipendenza e l’abolizione dello schiavismo, giungendo al grado di maggiore. Fu ferito gravemente alla gamba destra in combattimento e tornò in Europa dove fu amputato. Visse per qualche tempo a Parigi, conoscendo Felici Orsini nel periodo in cui attentò alla vita dell’Imperatore Napoleone III. Fu costretto a lasciare la Francia e dopo qualche tappa tornò in Toscana nel 1958.
Nel 1859 ebbe parte nella pacifica rivoluzione che cacciò dalla Toscana i Lorena. Nonostante mancasse da tempo da Firenze aveva comunque un grade ascendente popolare e quando si trattò di accompagnare il granduca al confine fu scelto lui che con la sua gamba di legno, montato a cassetta della carrozza su cui salì Leopoldo II, era garanzia che non ci fossero manifestazioni popolari tra coloro che avevano ancora simpatie per i Lorena.
Nel 1860, a Talamone, fu costretto a sbarcare dallo stesso Garibaldi, a causa della sua menomazione, insieme ad altri giudicati inidonei.
Siccoli così si aggregò ai partecipanti ai volontari della colonna Zambianchi, anch’essi sbarcati a Talamone, con funzioni di commissario di guerra.
Dopo l’esito disastroso della diversione, ritornato a Genova, organizzò una spedizione verso la Sicilia di 400 uomini sul piroscafo Oregon sbarcando nel mese di giugno a Catania assieme a Pittaluga, Civinnini ed altri.
Partecipò al proseguo della campagna sul continente.

A Napoli, nella rassegna militare predisposta per l’arrivo del Re, pretese di partecipare alla parata alla pari degli ufficiali regi per affermare la presenza dell’esercito dei volontari nel momento della normalizzazione sabauda, quando i garibaldini dovevano essere messi da parte, dopo la partenza di Garibaldi per Caprera.
Bandi così descrive la scena: “…si pose indosso la sua camicia rossa più nuova, e montò a cavallo, su certa sella, fatta a posta per tenerlo in equilibrio con una unica gamba, e si imbrancò bravamente nel seguito del re, pieno di pezzi grossi…”
Giunti in via Toledo un palafreniere gli intimò di allontanarsi dal seguito reale e Siccoli, di carattere impetuoso, lo frustò facendolo sanguinare, poi per cavarsela con onore salì col cavallo sul marciapiede, e colla mano sull’elsa della sciabola, aspettò spalle al muro. Il Re, Cialdini, La Marmora lo guardarono con occhi rabbiosi ma nessuno si avvicinò.
Dopo la bravata passò tre mesi nel carcere di Castel dell’Uovo.

Dopo l’impresa dei Mille fu deputato nella I legislatura. Si ricorda un suo ordine del giorno, respinto sdegnosamente, per la liberazione di operai che avevano scioperato a Torino. In quel periodo Siccoli si avvicinò a idee socialiste e a riflessioni sul conflitto tra capitale e lavoro.
Visse di nuovo a Firenze pensando, senza successo, alle più stravaganti imprese economiche.
Partecipò ancora alla III guerra d’Indipendenza come colonnello dei volontari garibaldini.
Morì a Roma nel 1886, dimenticato da tutti.



“… un suo compagno d’altri tempi che lo aveva seguito nei mari della Cina e che poi aveva perduto una gamba combattendo pei liberali del Perù, bel soldato, vivacissimo ingegno, voleva seguirlo così mutilato com’era anche a quella sua bella guerra. Egli dovette supplicarlo di andarsene, e infine comandarglielo. Furono lagrime! Ma Stefano Siccoli dovè ubbidire, discendere, veder da terra salpare l’ancora, stringersi il cuore perché non gli scoppiasse…”

G.C.ABBA

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