Giovanni Battista Cella

Giovanni Battista Cella

Giovanni Battista Cella nacque ad Udine da una famiglia della media borghesia. Seguì regolarmente gli studi secondari e si iscrisse alla facoltà di legge presso l’università di Padova, ma presto fu preso dalla passione risorgimentale.
Nella Seconda Guerra d’Indipendenza (1859) Cella s’arruolò nei Cacciatori delle Alpi e vi restò fino allo scioglimento. L’anno dopo fu dei Mille, segnalandosi per coraggio fin dallo sbarco a Marsala e poi a Palermo; dopo la battaglia del Volturno ottenne il grado di sottotenente.

Educato agli ideali mazziniani e ad una profonda solidarietà, provvide col suo denaro alle necessità dei commilitoni feriti presso l’ospedale di Napoli.

Cella rimase membro attivo del Partito d’Azione mazziniano e partecipò all’impresa garibaldina che finì drammaticamente  sull’Aspromonte.
Successivamente Cella soggiornò a Torino, come esule politico, per fare ritorno di nascosto a Udine (ancora sotto l’impero asburgico) nel ’64, insieme a Enrico Matteo Zuzzi e altri, per preparare un’ insurrezione armata di ispirazione mazziniana e appoggiata da Garibaldi,  che avrebbe dovuto provocare l’intervento italiano contro l’Austria, ma che invece fallì anche perché la popolazione rimase indifferente. Giovanni Battista Cella, in fuga con la compagna Giacomina Turca che partorì il loro figlio in piena campagna e che sarebbe morta dopo pochi mesi, si recò a Bologna e poi Milano.

Nella Terza Guerra d’Indipendenza  si arruolò volontario nel III battaglione dei bersaglieri lombardi e come sottotenente fu il primo soldato italiano a passare il confine di Stato. Il 24 giugno 1866 ebbe l’ordine di Garibaldi di attaccare gli Austriaci al Caffaro (Brescia) e il 25 giugno si coprì di valore nella battaglia di Ponte Caffaro dove fu ferito dopo un epico duello a sciabola con un ufficiale austriaco.
Fu ricoverato a Brescia poi rientrò ad Udine. Finita la guerra, annesso il Friuli al Regno d’Italia, per Cella cominciarono le delusioni.
Nel 1867, nel tentativo di far insorgere Roma ebbe l’incarico di impadronirsi di Porta San Paolo insieme a insorti romani ma all’appuntamento si presentarono in cinque. Partecipò poi come maggiore comandante di battaglione alle battaglie di Monterotondo e Mentana. Si rifugiò quindi a Firenze e poi rientrò ad Udine, dove fu consigliere comunale.
Sfiduciato per la situazione politica e per come Roma era stata unita all’Italia, aderì politicamente all’estrema sinistra, ma invano venne portato candidato alle elezioni del novembre 1874, nonostante l’appoggio di Garibaldi e di Cairoli.

Lentamente Cella, deluso per il venir meno degli ideali repubblicani che lo avevano sorretto per tutta, si rese conto di aver combattuto per qualcosa che non lo convinceva più.

Viveva  come tanti l’amarezza di sentirsi dimenticati, una volta realizzata l’unità d’Italia sotto i Savoia, a cui essi, repubblicani, avevano contribuito in modo determinante. Il nuovo Stato non è quello sognato: è cinico e centrato sugli interessi borghesi; la monarchia sabauda più rafforzata che mai e il sogno repubblicano diventa qualcosa di sempre più lontano. Si susseguono da subito governi autoritari, di destra: la monarchia e la classe politica conservatrice tutelano il latifondo, la rendita finanziaria, e la nascente industria nei grossi centri, che si regge sullo sfruttamento intensivo di manodopera sottopagata. Inoltre, il risanamento delle casse statali, dissanguate dalle guerre di indipendenza, viene attuato solo colpendo i consumi della popolazione meno abbiente, con odiose imposte indirette, prima fra tutte la tassa sul macinato. L’Italia degli agrari, dei padroni delle ferriere, dei militaristi non poteva quindi ricordarsi di loro, dei tanti Andreuzzi, Cella, Ciotti, dei tanti uomini liberi che, in nome dell’idea repubblicana, avevano scritto le pagine migliori del nostro Risorgimento. Il destino per gli arditi di Navarons fu l’oblio. Circondati dall’ingratitudine, dimenticati, alcuni muoiono poveri di mezzi e pieni di amarezza, altri addirittura si suicidano, altri ancora rimangono aggrappati a un’esistenza grama che, dopo il carcere austriaco, riserva loro le miserie italiane.
In questo clima di grande delusione anche gli affari di Cella andarono male e il suo patrimonio personale, che era già stato molto assottigliato per aver contribuito a finanziare le imprese garibaldine, praticamente si esaurì e una sua fabbrica di metri a Udine fallì.
Il 16 novembre 1879 a Udine Cella, deluso moralmente e materialmente, si ferì gravemente con due colpi nel cimitero di San Vito di Udine. Soccorso, morì poco dopo all’ospedale. I resti di Cella riposano nel cimitero di Udine.
Marziano Ciotti, compagno di Cella in tante imprese e che nel 1887 morì anche lui suicida a Udine annegandosi in un canale, ci ha lasciato una preziosa memoria (Alcuni cenni sui Moti del Friuli, 1864) pubblicata nel 1880 che, oltre a ricostruire l’impresa di Navarons, esprime una profonda amarezza per l’ingrato oblio del neonato stato italiano riservato a lui e ai suoi compagni:

Busto di Cella, Loggia di San Giovanni ad Udine

“… Non sempre la fortuna fu propizia ai valorosi – dice un mio amico – e la magnanima impresa del Friuli restò un semplice tentativo come quelli delle Romagne, della Savoia, della Spezia, dei fratelli Bandiera e di Sapri. Se non che – mentre tutti questi fatti furono celebrati dalla storia – quello solo del 1864 venne posto in dimenticanza. Nessuno mai parlò di esso. Il venerando Dottore Antonio Andreuzzi moriva poverissimo; suo figlio Silvio ebbe ad abbandonare l’Italia per disperazione e sta facendo il medico nella Repubblica Argentina – sua moglie si trova in squallide ristrettezze finanziarie – e i suoi nipoti sono raminghi per il mondo a guadagnarsi da vivere lavorando onoratissimamente; Tolazzi lavora indefessamente per mantenere la sua famigliola, e il modesto autore di queste pagine vive oscuro, povero, ignorato in un malenconico angolo del Friuli, in lotta coi bisogni più urgenti all’esistenza….”

Marziano Ciotti

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